Vita da streghe ha intervistato Massimo Guastini, da pochi giorni eletto nuovo presidente dell’Art Directors Club Italiano (ADCI), la famosa associazione dei creativi della comunicazione, sul tema “donne e pubblicità“:
M.G: In realtà non penso di poter risolvere questa forma di deficienza sociale grazie alla mia carica. Ma voglio che L’Art Directors Club Italiano prenda una posizione rispetto a questo argomento. Voglio sia chiaro a tutti che i migliori creativi italiani non ricorrono a rappresentazioni gratuite e non pertinenti del corpo femminile per attirare l’attenzione. Anzi considerano questo utilizzo una rinuncia al proprio ruolo professionale. Noi siamo quelli che devono trovare idee capaci di dare valore alle marche. Non serve certo un ottimo creativo per mettere una donna nuda in una campagna. Chiunque può avere una non idea del genere.
Al di là di esternare pubblicamente la nostra posizione rispetto a questo tema, quello che concretamente possiamo fare è cercare un dialogo con Upa, vale a dire l’associazione che riunisce le più importanti aziende italiane che commissionano le campagne pubblicitarie.
Organizzare insieme un convegno sul tema potrebbe essere una buona partenza.
Blog: Alcuni pubblicitari attribuiscono la colpa delle pubblicità sessiste ai propri committenti: ma il pubblicitario non dovrebbe essere un consulente che indirizza proprio le scelte del committente?
M.G: Sì, dovrebbe. Ma la debolezza contrattuale dei “pubblicitari” rispetto alle aziende è ormai un fatto, da tempo. Molto raramente si può parlare di rapporto consulenziale. Inoltre, a differenza di vent’anni fa, non esistono più grandi agenzie guidate da ottimi creativi. Se guardi l’elenco delle prime venti agenzie italiane, sono quasi tutte controllate da multinazionali, e gestite da manager il cui ultimo problema è che la comunicazione abbia un’etica.
M.G: Non conoscevo questa poesia ma mi piace perché esprime esattamente il posizionamento della mia agenzia. Non ci consideriamo scelti dalle aziende. Siamo noi, a nostra volta, a sceglierle. E nella fase esplorativa, che sia una consultazione o una gara, valutiamo con grande attenzione l’etica e l’approccio dei nostri interlocutori. Nessuna azienda che lavora con cookies ci ha mai chiesto “metteteci la gnocca nella campagna pubblicitaria”. E quelle che avrebbero potuto farlo non lavorano con noi.
M.G: La verità è che il corpo della donna è molto più “umiliato e offeso” da buona parte di quell’83% di palinsesto televisivo che, per legge, non può essere occupato dalla pubblicità. E non serve avere visto Videocracy per saperlo. La pubblicità non può superare nell’ambito della giornata la media del 17% all’ora. Circa dieci minuti su sessanta.
La verità è che l’immaginario collettivo è costruito essenzialmente dalla televisione. E questo lo sosteneva Pasolini già negli anni ’70, quando avevamo solo due canali, a parte i pochi che potevano permettersi di vedere la Tv svizzera e Capodistria.
La verità è che l’era Berlusconi e la mediasettizzazione della televisione italiana ci hanno riportato indietro, di decenni. Oggi le donne lavorano perché servono due stipendi per mantenere il tenore di vita che prima era garantito da un solo salario. Ma la vera parità sessuale è tutta un’altra faccenda.
Sarebbe davvero interessante calcolare quanti minuti al giorno di televisione trasmettono stereotipi e cliché sessisti. Sarebbe utile capire quanti siano attribuibili alla pubblicità e quanti al normale palinsesto. A mio parere, il Ministero per le Pari Opportunità dovrebbe avviare un’indagine. Poi, raccolti i dati, risulterebbe evidente che per arrivare a una reale parità tra uomo e donna, in Italia, ci vuole ben altro che un protocollo d’intesa con lo Iap per sensibilizzare il marketing e la pubblicità.
La grossa discriminante oggi è la “questione” maternità. E’ lì che occorre agire. Se i padri fossero obbligati per legge a prendersi metà del congedo maternità, questo comporterebbe a cascata una serie di effetti realmente “parificanti”. E improvvisamente noi pubblicitari inizieremmo a studiare commercial dove è il “babbo” a conversare di pannolini con altri padri, ai giardinetti, mentre le mogli giocano a squash nella pausa pranzo. E nei colloqui di assunzione, anche gli uomini sotto I 40 anni si sentirebbero fare la domanda “ha intenzione di avere figli?”
M.G: Sostanzialmente sì. Non possiamo essere un’avanguardia, perché quasi mai le avanguardie sono apprezzate dal grande pubblico. E’ rarissimo che una campagna pubblicitaria possa veicolare concetti e idee che non siano già radicate. La nostra società è oggi tra le più sessiste del mondo civile (parere di fonti neutrali, esterne e autorevoli) e la pubblicità la riflette. Al tempo stesso, come ho già dichiarato nel corso di una riunione proprio nel consiglio direttivo Iap (istituto autodisciplina pubblicitaria), la pubblicità deve piantarla di essere connivente con stereotipi che danneggiano lo sviluppo reale della società. Io credo anche che la buona pubblicità oltre a contribuire alla promozione della marca possa avere un ruolo che elevi, anziché inquinare, l’immaginario collettivo. Ma, lo ricordo ancora una volta, pesiamo solo il 17% del palinsesto televisivo.
M.G: L’effetto è ovviamente devastante e avete fatto bene a realizzarlo così.
Deve far riflettere. E se tutti riflettessimo di più, quel video durerebbe molto meno. Detto questo, il montaggio ha ovviamente concentrato in 3 minuti e 32 secondi il peggio delle campagne sessiste uscite negli ultimi anni. Tutte, credo, sono state bloccate dallo Iap in Italia. Alcune mi parevano fatte in casa, e nessuna di queste è stata ideata da creativi dell’Art Directors Club Italiano. Lo dico non per difendere il mio Club ma per sottolineare, ancora una volta, che se le aziende scegliessero con maggior cura i propri partner e non si facessero consigliare solo da intermediari di dubbia professionalità, da amici di amici, dalla voglia di pagare il meno possibile la risorsa creatività, e da criteri ancor più discutibili, beh tutti questi orrori non avrebbero mai visto la luce. Diverse di queste cose sono state ideate da fotografi. Anche se oggi è apparentemente l’immagine a tirare la volata di una campagna, la professione di fotografo e di creativo pubblicitario sono due cose molto diverse. Quanto uno dei due prova a invadere l’area dell’altro, di solito sono guai. Ma i guai peggiori non capitano quando gli art provano a fare I fotografi.
Di non mollare mai, e soprattutto di non credere alla “palla” che questa battaglia nasca da sentimenti sessuofobi. Qui la questione non è più, come negli anni ’70, rappresentare con il nudo il legittimo desiderio di liberarsi dall’oppressione di una società cattolica che negava alla donna una sessualità libera e non vincolata alla procreazione. La questione, oggi, è non accettare di essere ridotte a un mero oggetto di trastullo sessuale. Di avere un ruolo solo se e in quanto sessualmente desiderabili.
PS: Ringrazio Massimo Guastini per la sua disponibilità e specifico che sottolineature e link presenti nel testo sono stati inseriti da me.
(fonte: http://vitadastreghe.blogspot.com)
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